L’Istruzione Generale del Messale Romano stabilisce le seguenti regole per le genuflessioni durante la Messa:
Tre genuflessioni sono fatte dal sacerdote celebrante: cioè, dopo l’esposizione dell’ostia, dopo l’esposizione del calice, e prima della Comunione. Alcune particolarità da osservare in una Messa concelebrata sono annotate al loro posto. Se, tuttavia, il tabernacolo con il Santissimo Sacramento è presente nel santuario, il sacerdote, il diacono e gli altri ministri si genuflettono quando si avvicinano all’altare e quando escono dal santuario, ma non durante la celebrazione della Messa stessa. Altrimenti tutti coloro che passano davanti al Santissimo Sacramento si genuflettono, a meno che non si muovano in processione. I ministri che portano la croce processionale o le candele chinano il capo invece di genuflettersi.
Altre genuflessioniModifica
Nel rito bizantino, più ampiamente osservato nella Chiesa ortodossa, la genuflessione gioca un ruolo minore e la prostrazione, conosciuta come proskynesis, è molto più comune. Durante il santo mistero della riconciliazione, tuttavia, dopo la confessione dei peccati, il penitente deve genuflettersi a capo chino davanti all’Evangeliario o a un’icona di Cristo mentre il confessore – un vescovo o un presbitero – dichiara formalmente il perdono di Dio.
La genuflessione o inginocchiarsi è prescritta in vari punti della liturgia del Rito Romano, come dopo la menzione della morte di Gesù sulla croce nelle letture della Passione durante la Settimana Santa.
Una genuflessione al ginocchio destro si fa durante e dopo l’adorazione della croce del Venerdì Santo.
Una genuflessione si fa alla menzione dell’Incarnazione nelle parole et incarnatus est de Spiritu Sancto, ex Maria Virgine, et homo factus est (“e per mezzo dello Spirito Santo si incarnò dalla Vergine Maria, e divenne uomo”) nel Credo nelle solennità del Natale e dell’Annunciazione.
È pratica comune che durante la recita della preghiera dell’Angelus, per i versi “E il Verbo si fece carne/E venne ad abitare in mezzo a noi”, coloro che recitano la preghiera si inchinino o si genuflettano.
Messa tridentinaEdit
Nella Messa tridentina questa genuflessione si fa in ogni giorno in cui si recita il Credo a Messa, così come in diversi altri punti:
- alle parole et Verbum caro factum est (“e il Verbo si fece carne”) nel prologo del Vangelo di Giovanni, che è il solito Ultimo Vangelo, così come il Vangelo della terza Messa di Natale.
- alle parole et procidentes adoraverunt eum (“e cadendo lo adorarono”) nel Vangelo dell’Epifania, Matteo 2,1-12 (che prima del 1960 era anche l’Ultimo Vangelo della terza Messa di Natale)
- alle parole Adiuva nos … durante il Tratto (identico) detto il lunedì, mercoledì e venerdì di Quaresima, tranne il Mercoledì delle Ceneri. Ma nessuna genuflessione è prevista quando dopo la Settagesima lo stesso Tratto è usato nella Messa votiva in tempo di Mortalità (Missa votiva tempore mortalitatis)
- alle parole et procidens adoravit eum (“e cadendo lo adorò”) alla fine del Vangelo del mercoledì della quarta settimana di Quaresima, Giovanni 9:1-38
- alle parole ut in nomine Iesu omne genu flectatur caelestium, terrestrium et infernorum (“che nel nome di Gesù si pieghi ogni ginocchio di quelli che sono in cielo, in terra e sotto terra”) nell’Epistola (Filippesi 2:5-11) della Domenica delle Palme, della Festa dell’Esaltazione della Santa Croce il 14 settembre (e anche, prima del 1960, della Festa dell’Invenzione della Santa Croce il 3 maggio) e nell’Epistola (Filippesi 2, 8-11) della Messa votiva della Passione del Signore.
- alle parole Veni, sancte Spiritus nell’Alleluia prima della Sequenza nella Domenica di Pentecoste e nell’Ottava di Pentecoste e nella Messa votiva dello Spirito Santo
Nella Chiesa Cattolica Maronita, c’è una suggestiva cerimonia di genuflessione nella festa di Pentecoste. La congregazione si genuflette prima sul ginocchio sinistro a Dio Padre, poi sul ginocchio destro a Dio Figlio, e infine su entrambe le ginocchia a Dio Spirito Santo.
Genuflettersi a un vescovoModifica
Dall’usanza di genuflettersi ai re e ad altri nobili è nata l’usanza per cui i laici o il clero di minor rango si genuflettono a un prelato e baciano il suo anello episcopale, come segno di accettazione dell’autorità apostolica del vescovo come rappresentante di Cristo nella chiesa locale, e originariamente la loro posizione sociale come signori. Gli abati e altri monaci anziani spesso ricevevano la genuflessione dai loro monaci e spesso da altri.
Genuflettersi davanti a prelati maggiori (cioè vescovi nelle loro diocesi, metropoliti nella loro provincia, legati papali nel territorio loro assegnato, e cardinali fuori Roma o nella chiesa loro assegnata a Roma) è trattato come obbligatorio nelle edizioni del Caeremoniale Episcoporum precedenti a quella del 1985; durante le funzioni liturgiche secondo queste prescrizioni, il clero si genuflette quando passa davanti a tali prelati, ma un prete officiante ed eventuali prelati più giovani, canonici, ecc. sostituiscono la genuflessione con un inchino della testa e delle spalle.
Gli attuali libri liturgici cattolici escludono la genuflessione ad un vescovo durante la liturgia: “La genuflessione, fatta piegando il ginocchio destro a terra, significa adorazione, e perciò è riservata al Santissimo Sacramento, come pure alla Santa Croce dalla solenne adorazione durante la celebrazione liturgica del Venerdì Santo fino all’inizio della Veglia Pasquale”. Ma al di fuori della liturgia alcuni continuano a genuflettersi o inginocchiarsi per baciare l’anello del vescovo.
Anche se si afferma spesso che le genuflessioni devono essere fatte sul ginocchio sinistro quando sono fatte ad autorità meramente umane, non esiste una tale prescrizione in nessun libro liturgico.