Esilio autoimposto: Peer Gynt, Casa di bambola e Fantasmi
Ma la morte del suo teatro fu la liberazione di Ibsen come drammaturgo. Senza riguardo per un pubblico che riteneva meschino e illiberale, senza curarsi delle tradizioni che trovava vuote e pretenziose, ora poteva scrivere per se stesso. Decise di andare all’estero e fece domanda per una piccola borsa di studio statale. Ne ottenne una parte, e nell’aprile del 1864 lasciò la Norvegia per l’Italia. Per i successivi 27 anni visse all’estero, principalmente a Roma, Dresda e Monaco, tornando in Norvegia solo per brevi visite nel 1874 e 1885. Per ragioni che a volte ha riassunto come “piccolezza mentale”, la sua patria gli aveva lasciato un sapore molto amaro in bocca.
Con lui in esilio Ibsen ha portato i frammenti di un lungo poema semidrammatico che sarà chiamato Brand. La sua figura centrale è un dinamico pastore rurale che prende la sua chiamata religiosa con una sincerità ardente che trascende non solo ogni forma di compromesso, ma anche ogni traccia di simpatia e calore umano. “Tutto o niente” è la richiesta che il suo dio fa a Brand e che Brand a sua volta fa agli altri. È un eroe morale, ma è anche un mostro morale, e il suo cuore è lacerato dall’angoscia che il suo programma morale gli impone di infliggere alla sua famiglia. Non esita mai, non smette mai di sovrastare i meschini compromessi e i pigri spirituali che lo circondano. Eppure, nell’ultima scena in cui Brand si trova solo davanti al suo dio, una voce tuona da una valanga che, pur schiacciando fisicamente il pastore, ripudia anche tutta la sua vita morale: “È il dio dell’amore”, dice la voce dall’alto. Così l’opera non è solo una denuncia della meschinità, ma una tragedia dello spirito che la trascende. Il poema affrontava i suoi lettori non solo con una scelta ma con un’impasse; l’alternativa eroica era anche un’alternativa distruttiva (e autodistruttiva). In Norvegia Brand fu un enorme successo popolare, anche se (e in parte perché) il suo significato centrale era così preoccupante.
Subito dopo Brand (1866) arrivò Peer Gynt (1867), un altro dramma in distici rimati che presentava una visione completamente antitetica della natura umana. Se Brand è un monolite morale, Peer Gynt è un capriccioso will-o’-the-wisp, un opportunista vivace ed egocentrico che è senza scopo, arrendevole, e completamente privo di principi, ma che rimane un amabile e amato furfante. La poesia selvaggia e beffarda di Peer Gynt ha finito per mettere in ombra Brand nel giudizio popolare. Ma queste due figure sono tipi interdipendenti e antitetici che, sotto forme diverse, percorrono la maggior parte dell’opera classica di Ibsen. Come Don Chisciotte e Sancho Panza, sono archetipi universali e individui indimenticabili.
Con questi due drammi poetici, Ibsen ha vinto la sua battaglia con il mondo; ora si è fermato per elaborare il suo futuro. Un dramma storico filosofico sull’imperatore romano Giuliano l’Apostata era stato a lungo nella sua mente; lo terminò nel 1873 con il titolo Kejser og Galilaeer (Imperatore e galileiano) ma in una forma di 10 atti troppo diffusa e discorsiva per il palcoscenico. Scrisse una satira moderna, De unges forbund (1869; La lega dei giovani) e poi, dopo molte bozze preliminari, una satira in prosa sulla politica delle piccole città, Samfundets støtter (1877; I pilastri della società). Ma Ibsen non aveva ancora trovato la sua vera voce; quando la trovò, il suo effetto non fu quello di criticare o riformare la vita sociale, ma di farla esplodere. L’esplosione avvenne con Et dukkehjem (1879; Casa di bambola).
Questa opera presenta una famiglia molto ordinaria: un direttore di banca di nome Torvald Helmer, sua moglie Nora e i loro tre figli piccoli. Torvald si considera il membro etico della famiglia, mentre sua moglie assume il ruolo di una bella irresponsabile per lusingarlo. In questo accordo, per non dire soffocante, si intromettono diversi estranei dalla mentalità dura, uno dei quali minaccia di smascherare una frode che Nora aveva commesso una volta (all’insaputa del marito) per ottenere un prestito necessario a salvargli la vita. Quando il marito di Nora viene finalmente a conoscenza di questo pericoloso segreto, reagisce con sdegno e la ripudia per paura della propria reputazione sociale. Completamente disillusa da suo marito, che ora vede come un falso vuoto, Nora dichiara la sua indipendenza da lui e dai loro figli e li lascia, sbattendo la porta di casa dietro di sé nella scena finale.
Il pubblico si è scandalizzato per il rifiuto di Ibsen in Casa di bambola di mettere insieme (come avrebbe fatto qualsiasi altro drammaturgo contemporaneo) un “lieto fine”, per quanto scadente o artificioso. Ma questo non era il modo di Ibsen; la sua opera riguardava il conoscere se stessi e l’essere fedeli a quel sé. Torvald, che aveva sempre pensato di essere un solido agente etico, si dimostra un ipocrita e un debole compromesso; sua moglie non è solo un’idealista etica ma una distruttiva, severa come Brand.
L’ambientazione di Casa di bambola è ordinaria fino alla trasparenza. La trama di Ibsen sfrutta con fredda precisione il processo noto come “esposizione analitica”. Un piano segreto (la falsificazione di Nora) sta per essere concluso (ora può finire di ripagare il prestito), ma, prima che l’ultimo passo possa essere fatto, un po’ di verità deve essere detta, e l’intero inganno si svela. È uno schema di azione scenica semplice e potente allo stesso tempo. Ibsen usò spesso questa tecnica, che gli fece guadagnare un pubblico internazionale.
Ibsen, con la sua opera successiva, Gengangere (1881; Fantasmi), creò ancora più sgomento e disgusto del suo predecessore, mostrando conseguenze peggiori dell’insabbiare verità ancora più brutte. Apparentemente, il tema dell’opera è la malattia venerea congenita, ma, ad un altro livello, si tratta del potere della contaminazione morale radicata di minare l’idealismo più determinato. Anche dopo che il libidinoso capitano Alving è nella tomba, il suo fantasma non sarà messo a riposo. Nell’opera, il memoriale menzognero che la sua vedova dalla mentalità convenzionale ha eretto alla sua memoria brucia anche se suo figlio impazzisce per la sifilide ereditata e la sua figlia illegittima avanza inesorabilmente verso il suo destino in un bordello. L’opera è un cupo studio sulla contaminazione che si diffonde in una famiglia sotto la copertura delle opinioni timidamente rispettabili della vedova signora Alving.
Un’opera sulla sifilide e una sull’abbandono della famiglia da parte della moglie hanno suggellato la reputazione di Ibsen come un cattivo vecchio, ma i teatri progressisti in Inghilterra e in tutto il continente hanno iniziato a mettere in scena le sue opere. Il suo pubblico era spesso piccolo, ma ce n’erano molti, e prendevano le sue opere molto seriamente. Lo stesso fecero i critici convenzionali, che denunciarono Ibsen come se avesse profanato tutto ciò che era sacro e santo. La risposta di Ibsen prese la forma di un contrattacco drammatico diretto. Il dottor Stockmann, l’eroe di En folkefiende (1882; Un nemico del popolo), funziona come portavoce personale di Ibsen. Nell’opera è un ufficiale medico, incaricato di ispezionare i bagni pubblici da cui dipende la prosperità della sua città natale. Quando scopre che l’acqua è contaminata, lo dice pubblicamente, anche se i funzionari della città e i cittadini cercano di farlo tacere. Quando ancora insiste nel dire la verità, viene ufficialmente dichiarato “nemico del popolo”. Sebbene sia ritratto come una vittima, il dottor Stockmann, come tutti gli idealisti della verità di Ibsen dopo Brand, porta con sé anche un profondo ceppo di distruttività. (I suoi attacchi ai bagni, dopo tutto, rovineranno la città; è solo che, rispetto alla verità, questo non gli interessa). L’opera successiva di Ibsen renderà questo accordo minore dominante.
In Vildanden (1884; L’anatra selvatica) Ibsen rovescia completamente il suo punto di vista presentando sul palcoscenico un gratuito, distruttivo narratore di verità la cui compulsione visita una miseria catastrofica su una famiglia di innocenti indifesi. Con l’aiuto di una serie di delusioni confortanti, Hjalmar Ekdal e la sua piccola famiglia vivono un’esistenza un po’ squallida ma essenzialmente allegra. Su questi deboli indifesi discende un infatuato venditore di verità, Gregers Werle. Egli taglia via le basi morali (per quanto illusorie) su cui la famiglia ha vissuto, lasciandoli avviliti e distrutti dal peso di una colpa troppo pesante da sopportare. Lo scempio compiuto sulla famiglia Ekdal è patetico piuttosto che tragico, ma l’elaborazione dell’azione raggiunge una sorta di luttuosa poesia che è abbastanza nuova nel repertorio di Ibsen.
Ognuno di questa serie di classici drammi moderni di Ibsen cresce per estensione o inversione dal suo predecessore; essi formano un filo ininterrotto. L’ultimo della sequenza è Rosmersholm (1886), in cui le varianti del santo distruttivo (Brand) e della canaglia fin troppo umana (Peer) si sforzano ancora una volta di definire le loro identità, ma questa volta a un livello di sensibilità morale che dà all’opera un’aria speciale di serenità argentea. L’ex-parson Johannes Rosmer è la personalità etica, mentre l’avventuriera Rebecca West è la sua antagonista. Entrambi sono perseguitati dal passato dallo spirito della defunta moglie del pastore, che si era suicidata sotto la sottile influenza di Rebecca West, e a causa dell’indifferenza al sesso del marito. Per il futuro è in gioco la scelta tra una libertà audace e senza limiti e le antiche tradizioni conservatrici della casa di Rosmer. Ma anche se lui è persuaso dallo spirito emancipato di Rebecca, lei è toccata dalla sua visione stazionaria e decorosa della vita. Ognuno è contaminato dall’altro e, per ragioni diverse ma complementari, si tentano a vicenda verso il fatale laghetto in cui la moglie di Rosmer annegò. L’opera si conclude con un doppio suicidio in cui sia Rosmer che Rebecca, ognuno per le ragioni dell’altro, si fanno giustizia da soli.