Le 10 migliori canzoni di Peter Gabriel

Uno degli artisti più creativi e lungimiranti dei nostri tempi, la profondità e l’ampiezza della carriera solista dell’ex frontman dei Genesis ha incluso world music, power-pop tagliente, colonne sonore di film, inni edificanti, attivismo, introspezione, e non pochi grandi successi.

Qualsiasi semplice top ten presenterà sempre notevoli peccati di omissione su una tela così ampia, ma ecco dieci dei migliori, ognuno dei quali rivela un aspetto diverso della multiforme produzione di Peter Gabriel.

10) Sledgehammer (1986)

Sempre definito dal suo video e forse storicamente rovinato dall’eccessiva saturazione ed esposizione, il primo No. 1 è essenzialmente cinque minuti di allusioni al pene (Big Dipper, Sledgehammer, Train, Bumper Car) e una richiesta di essere mostrato “intorno alla tua gabbia di frutta”. Non è esattamente ambiguo.

Anche se tonalmente più leggero di molti altri suoi lavori, la vivace sezione di fiati – la house band dell’etichetta Stax – aggiunge un po’ di sprint a un tempo appena al limite della lentezza.

9) I Don’t Remember (1980)

Una volta si riferiva a se stesso come un “fornitore di cliché psichiatrici amatoriali”, questo studio sull’amnesia è un classico esempio dell’abilità di Gabriel di scrivere una canzone pop killer attraversata da una stranezza snervante.

Non è lontano un milione di miglia da David Bowie della stessa epoca, anche se il ritornello è più espansivo di qualsiasi cosa abbia tentato. Pesantemente elaborato in tutto e relativamente pesante per la chitarra, ha anche un sacco di groove guidato dal basso squelchy/chapman stick di Tony Levin.

8) Shock The Monkey (1982)

Esce dai blocchi con un motivo circolare tagliente e inquietante, il ritmo staccato e sincopato si ripete per tutta la durata, portando una marcata asprezza e senso di spazio a un piccolo racconto nervoso di gelosia vagamente collocato nello spazio-idea della sperimentazione animale.

Ampiamente coperto, anche i nu-metal Coal Chamber una volta lo affrontarono con Ozzy Osbourne alla voce: a conti fatti, preferiresti prendere l’ECT.

7) Don’t Give Up (1986)

Preoccupandosi della rottura del suo matrimonio, e del dolore delle relazioni – Gabriel: “gestire il fallimento è una delle cose più difficili che dobbiamo imparare a fare” – questo duetto a tema universale fu originariamente proposto a Dolly Parton.

Come Everybody Hurts dei R.E.M., il suo argomento per tutti, espresso semplicemente, lo ha elevato alla coscienza pubblica di massa. Il video – Kate Bush e Gabriel in un continuo abbraccio one-shot – ha ulteriormente capitalizzato la padronanza del mezzo che aveva conquistato con Sledgehammer lo stesso anno.

6) San Jacinto (1982)

Come Solsbury Hill, un’altra canzone ispirata da divagazioni nei grandi spazi aperti – questa volta le montagne che confinano con Palm Springs – Gabriel esamina l’esperienza dei nativi americani in una delle sue tracce più evocative ed espansive.

Una prima registrazione digitale, l’ampio uso di campioni (sull’allora nuova Fairlight CMI) aggiunge rintocchi, ritmi in loop e profondi strati caldi a una performance largamente contenuta.

5) The Rhythm Of The Heat (1982)

Spesso usato come apertura del suo set, questa ondata di batteria ispirata a Jung traccia territori molto, molto lontani da alcune delle altre pepite pop in questa lista. Di portata cinematografica – è stata riciclata nella colonna sonora di Birdy – è una prima prefigurazione sia di questo che di Passion, la sua colonna sonora per The Last Temptation Of Christ.

Più che una canzone, l’uso di una danza di guerra tribale ghanese come punto d’ingresso nell’inconscio collettivo è, qualunque sia il tuo pensiero su queste cose, superlativamente efficace.

4) Biko (1980)

La prima vera incursione di Gabriel nell’attivismo e nella world music, la storia della morte dell’attivista anti-apartheid Steve Biko in custodia della polizia in Sudafrica, ha chiuso il cerchio quando è stata eseguita alle celebrazioni del 70° compleanno di Nelson Mandela a Wembley nel 1988.

Fondendo una nenia funebre africana con ritmi mondiali e, bizzarramente, cornamuse, la forza anthemica della canzone ha risuonato globalmente dalla sua uscita; ispirando Steve Van Zandt, Paul Simon, Joan Baez e Robert Wyatt, per non parlare di innumerevoli cittadini comuni.

3) Games Without Frontiers (1980)

Invariabilmente ascoltato male su e giù per i campi da gioco delle scuole comprensive della Gran Bretagna, il ritornello francese della canzone – Jeux Sans Frontieres – era una sfida linguistica, a volte manifestandosi come ‘she’s so funky, yeah?’ e (il più vicino) ‘she’s so hot, Pierre’.

Traboccante di paranoia anni ’80; giochi di guerra come giochi per bambini, nevrosi olimpica, attacco nucleare, il suo severo messaggio è agghiacciantemente rafforzato dalla chitarra atonale in stile Fripp di David Rhodes e dal più lugubre uso di fischi nel rock. Il genio di Gabriel nell’usare l’asilo per nutrire l’incubo lo rende un’enormemente potente polemica contro la guerra.

2) Red Rain (1986)

Un inno incredibilmente sicuro, Gabriel aggiunge una metafora dell’AIDS alla sua serie di paure e preoccupazioni degli anni 80. La produzione impareggiabile di Daniel Lanois brilla ancora 30 anni dopo, il bassista e tuttofare Tony Levin suona fuori dalla sua pelle e l’hi-hat di Stewart Copeland (che simula la pioggia del titolo) è una masterclass di batterista.

Temi acquatici costellano la carriera di Gabriel (Here Comes The Flood, Down The Dolce Vita), e un’idea cinematografica un tempo radicata – Mozo – doveva raccontare di abitanti di un villaggio puniti da una pioggia rosso sangue, il nome misteriosamente citato in tutti i brani sopra citati più On The Air ed Exposure.

1) Solsbury Hill (1977)

Così ventilato e baciato dal sole come la passeggiata spirituale che lo ha ispirato, il debutto post-Genesis di Gabriel ara un atipico solco autobiografico, riflettendo sulla rottura con il passato e su cosa potrebbe portare il futuro.

Come per molti artisti in buona fede, c’è una distanza emotiva in gioco, quasi guardando se stesso e i suoi sentimenti in terza persona. La semplicità della canzone – relativa, naturalmente, al fatto che è in 7/4 – e l’ottimismo, l’hanno vista resistere attraverso lo spettro della TV e del cinema, ora saldamente stabilita come un autentico classico.

Notizie recenti

{{{ articleName }}

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *