Carriera letteraria
Alcune delle prime poesie di Virgilio potrebbero essere sopravvissute in una raccolta di poesie a lui attribuite e note come Appendice Vergiliana, ma è improbabile che molte di queste siano genuine. La sua prima opera certa sono le Ecloghe, una raccolta di 10 poemi pastorali composti tra il 42 e il 37 a.C. Alcune di esse sono evasioni, escursioni letterarie nell’idilliaco mondo pastorale dell’Arcadia basate sul poeta greco Teocrito (fiorito intorno al 280 a.C.) ma più irreali e stilizzate. Trasmettono nel canto liquido le situazioni idealizzate di un mondo immaginario in cui i pastori cantano alla luce del sole le loro semplici gioie e ammutoliscono i loro dolori (sia per un amore infelice che per una morte prematura) in un pathos formalizzato. Ma alcuni portano il modo pastorale in contatto con il mondo reale, direttamente o per mezzo dell’allegoria, dando così una nuova direzione al genere. La quinta ecloga, sulla morte di Dafni, re dei pastori, ha chiaramente qualche relazione con la recente morte di Giulio Cesare; la decima porta Gallus, un collega poeta che ha anche ricoperto alte cariche come uomo di stato, nel mondo pastorale; la prima e la nona sono lamentazioni sulla cacciata dei pastori dalle loro fattorie. (Si credeva ampiamente nell’antichità che queste poesie esprimessero allegoricamente la perdita della fattoria di famiglia da parte di Virgilio quando i soldati veterani di Antonio e Ottaviano – più tardi l’imperatore Augusto – furono reinsediati dopo la battaglia di Filippi nel 42 a.C.). Si è pensato che successivamente abbia recuperato la sua proprietà grazie all’intervento dei suoi potenti amici. Comunque sia, è certo che i poemi sono basati sull’esperienza personale di Virgilio, sia in relazione alla sua fattoria che a quella dei suoi amici; ed esprimono, con un pathos struggente che è stato considerato specialmente virgiliano, il dolore dei diseredati).
Ma una ecloga in particolare si distingue per la sua rilevanza nella situazione contemporanea, e questa è la quarta (talvolta chiamata messianica, perché più tardi fu considerata profetica del cristianesimo). È un poema elevato, che profetizza in termini sonori e mistici la nascita di un bambino che riporterà l’Età dell’Oro, bandirà il peccato e ristabilirà la pace. Fu chiaramente scritto in un momento in cui le nuvole della guerra civile sembravano sollevarsi; può essere datato con certezza al 41-40 a.C., e sembra molto probabile che Virgilio si riferisca a un figlio atteso dal triumviro Antonio e da sua moglie Ottavia, sorella di Ottaviano. Ma, sebbene si possa attribuire al poema un’occasione specifica, esso va oltre il particolare e, in termini simbolici, presenta una visione dell’armonia mondiale, che era, in qualche misura, destinata ad essere realizzata sotto Augusto.
Uno degli effetti più disastrosi delle guerre civili – e di cui Virgilio, come connazionale, sarebbe stato più intensamente consapevole – fu lo spopolamento dell’Italia rurale. I contadini erano stati costretti ad andare in guerra, e le loro fattorie caddero in abbandono e in rovina come risultato. Le Georgiche, composte tra il 37 e il 30 a.C. (il periodo finale delle guerre civili), sono un superbo appello per il ripristino della tradizionale vita agricola in Italia. Nella forma è didascalica, ma, come disse Seneca più tardi, fu scritta “non per istruire i contadini ma per dilettare i lettori”. L’istruzione pratica (sull’aratura, la coltivazione degli alberi, la cura del bestiame e l’allevamento delle api) è presentata con una vivida visione della natura, ed è intervallata da digressioni poetiche altamente elaborate su argomenti quali la bellezza della campagna italiana (Libro II, riga 136 e seguenti) e la gioia del contadino quando tutto è raccolto (II.458 ).
Le Georgiche sono dedicate (all’inizio di ogni libro) a Mecenate, uno dei principali ministri di Augusto, che era anche il principale patrono delle arti. A questo punto Virgilio era un membro di quello che si potrebbe chiamare il circolo di corte, e il suo desiderio di vedere la sua amata Italia riportata agli antichi splendori coincideva con l’esigenza nazionale di risistemare la terra e diminuire la pressione sulle città. Sarebbe sbagliato pensare a Virgilio come uno scrittore di propaganda politica; ma sarebbe altrettanto sbagliato considerare la sua poesia come estranea alle principali correnti di esigenze politiche e sociali del tempo. Virgilio era personalmente impegnato negli stessi ideali del governo.
Nell’anno 31 a.C., quando Virgilio aveva 38 anni, Augusto (ancora conosciuto come Ottaviano) vinse la battaglia finale delle guerre civili ad Azio contro le forze di Antonio e Cleopatra e da quel momento risale l’età augustea. Virgilio, come molti dei suoi contemporanei, provò un grande senso di sollievo per il fatto che l’insensata lotta civile fosse finalmente finita e fu profondamente grato all’uomo che l’aveva resa possibile. Augusto era ansioso di preservare le tradizioni della repubblica e le sue forme costituzionali, ma era di fatto l’unico padrone del mondo romano. Usò il suo potere per stabilire un periodo di pace e stabilità e si sforzò di risvegliare nei romani un senso di orgoglio nazionale e un nuovo entusiasmo per la loro religione ancestrale e i loro valori morali tradizionali, quelli del coraggio, della parsimonia, del dovere, della responsabilità e della devozione familiare. Anche Virgilio, come connazionale nel cuore, sentiva un profondo attaccamento alle semplici virtù e alle tradizioni religiose del popolo italiano. Per tutta la vita si era preparato a scrivere un poema epico (considerato allora come la più alta forma di realizzazione poetica), e ora si prefiggeva di incarnare il suo ideale di Roma nell’Eneide, la storia della fondazione del primo insediamento in Italia, da cui sarebbe sorta Roma, da parte di un principe troiano esiliato dopo la distruzione di Troia da parte dei greci nel XII secolo a.C. Il tema che scelse gli diede due grandi vantaggi: uno era che la data e il soggetto erano molto vicini a quelli dell’Iliade e dell’Odissea di Omero, così da poter rimodellare episodi e personaggi del suo grande predecessore greco; e l’altro era che poteva essere messo in relazione con il suo contemporaneo mondo augusteo presentando Enea come il prototipo del modo di vivere romano (l’ultimo dei troiani e il primo dei romani). Inoltre, attraverso l’uso di profezie e visioni e dispositivi come la descrizione delle immagini sullo scudo di Enea o delle origini dei costumi e delle istituzioni contemporanee, potrebbe prefigurare gli eventi reali della storia romana. Il poema, quindi, opera su una doppia scala temporale; è eroico e tuttavia augusteo.
L’entusiasmo che Virgilio provava per la Roma rinata promessa dal regime di Augusto si riflette spesso nel poema. La profezia di Giove (I.257 e seguenti), che dà un quadro del destino divinamente ispirato di Roma, ha un impatto patriottico commovente: “A questi non ho posto limiti di spazio o di tempo – ho dato loro un dominio senza fine” (278-279); e ancora, sotto Augusto, “Allora le dure generazioni saranno ammorbidite, e le guerre saranno messe da parte” (291). Il discorso si conclude con un’immagine memorabile che rappresenta la figura personificata della Frenesia in catene, che digrigna invano i suoi denti insanguinati. Alla fine del sesto libro, Enea visita gli inferi, e lì passano davanti ai suoi occhi le figure degli eroi della storia romana, in attesa di nascere. Il fantasma di suo padre (Anchise) gliele descrive e termina definendo la missione romana come una missione di governo e di civilizzazione (paragonata alla conquista greca nell’arte e nella letteratura e nella scienza teorica). “Governa i popoli con il tuo dominio, risparmia i conquistati e sconfiggi i superbi”: questa è la visione del destino di Roma che l’imperatore Augusto e il poeta Virgilio avevano prima di loro – che Roma era divinamente designata prima a conquistare il mondo in guerra e poi a diffondere la civiltà e lo stato di diritto tra i popoli. Come disse Orazio ai romani in una delle sue odi, “Poiché siete servi degli dei, siete padroni sulla terra.”
La visione di Roma che l’Eneide esprime è nobile, ma la vera grandezza del poema è dovuta alla consapevolezza di Virgilio degli aspetti privati, oltre che pubblici, della vita umana. L’Eneide non è un panegirico; pone i risultati e le aspirazioni della gigantesca organizzazione del governo romano in tensione con le speranze frustrate e le sofferenze degli individui. La figura più memorabile del poema – e, è stato detto, l’unico personaggio creato da un poeta romano che sia passato alla letteratura mondiale – è Didone, regina di Cartagine, avversaria dello stile di vita romano. In un semplice panegirico di Roma, avrebbe potuto essere presentata in modo tale che il rifiuto di Enea sarebbe stato una vittoria da applaudire; ma, di fatto, nel quarto libro conquista così tanta simpatia che il lettore si chiede se Roma debba essere comprata a questo prezzo. Ancora, Turnus, che si oppone a Enea quando sbarca in Italia, resiste all’invasore che è venuto a rubargli la sposa. È chiaro che Turno è un personaggio meno civile di Enea, ma nella sua sconfitta Virgilio gli permette di guadagnare molta simpatia. Questi sono due esempi della tensione contro l’ottimismo romano; in molti altri modi, inoltre, Virgilio in tutto il poema esplora i problemi della sofferenza e il pathos della situazione umana. Eppure, alla fine, Enea resiste e continua verso la sua meta; la sua devozione al dovere (pietas) prevale, e il lettore romano sentirebbe che questo dovrebbe essere. “Così grande fu il compito di fondare la nazione romana” (I.33).
L’Eneide occupò Virgilio per 11 anni e, alla sua morte, non aveva ancora ricevuto la sua revisione finale. Nel 19 a.C., pensando di dedicare altri tre anni al suo poema, partì per la Grecia, senza dubbio per ottenere colore locale per la revisione di quelle parti dell’Eneide ambientate in acque greche. Durante il viaggio si prese la febbre e tornò in Italia, ma morì poco dopo l’arrivo a Brindisi. Non si può indovinare se l’Eneide avrebbe subito grandi cambiamenti; si racconta che l’ultimo desiderio di Virgilio fosse quello di bruciare il suo poema, ma che questa richiesta fu respinta dall’ordine di Augusto. Così com’è, il poema è un importante monumento sia alle conquiste nazionali e agli ideali dell’età augustea di Roma sia alla voce sensibile e solitaria del poeta che conosceva le “lacrime nelle cose” così come la gloria.